STORIA ANTICA, 1533 – 1571
1533
Morone può prendere possesso della diocesi
Nel 1527, alla morte del vescovo di Modena Ercole Rangoni, Alfonso d’Este non si fece scrupolo di candidare al posto suo figlio Ippolito II, già arcivescovo di Milano. Clemente VII, preoccupato dell’eccessivo potere del duca di Ferrara, nominò Pirro Gonzaga, il quale morì nel 1529, senza essere mai riuscito a prendere possesso della diocesi.
Clemente VII allora la diede al ventenne Giovanni Morone, figlio del cancelliere milanese Gerolamo. Ricevuto l’incarico, per prima cosa il giovane si fece nominare vescovo a Bologna, ma non riuscì tuttavia ad ottenere la diocesi subito per l’opposizione estense. Si trovò così costretto a negoziare un accordo con il duca di Ferrara. Nel novembre del 1531, il Morone dovette concedere una pensione all’arcivescovo Ippolito, rinunciare ai frutti del vescovato, incassati dal duca, e accettare il permanere del vicario Domenico Sigibaldi da Tortona, fedele agli Estensi. Le condizioni erano dure, ma gli permettevano di entrare finalmente a Modena il 28 gennaio 1533.
1536
I Conservatori decidono di finanziare una cattedra di greco
Dietro richiesta degli intellettuali, il Comune decise il 14 gennaio del 1536 di finanziare una lettura di greco. In cambio di un compenso di 10 lire al mese, venne dato incarico a Francesco Porto da Creta di tener lezione tutte le sere al palazzo comunale, nella camera dei notai.
Il circolo culturale, che si formò così in maniera spontanea, in analogia con quanto accadeva anche in altre città, iniziò ad essere identificato con l’appellativo di «Accademia del Grillenzoni».
Il desiderio di studio critico delle fonti, unito all’interesse per i dibattiti d’attualità, spinsero ben presto gli accademici ad affrontare le Scritture e i testi protestanti. Il metodo di pubblica lettura e libera discussione, collaudato per i classici, si adattava proficuamente all’analisi della Bibbia.
Nonostante lo scopo dichiarato fosse lo studio, l’Accademia non era un circolo d’élite chiuso in sé stesso. Al contrario, i suoi membri partecipavano attivamente alla vita cittadina sia nell’amministrazione, sia nelle professioni e nel commercio. Potevano contare anche sull’appoggio di qualche membro delle casate nobiliari, quali i Rangoni, anche se questi non ebbero un ruolo paragonabile a quella di Renata di Francia a Ferrara.
1537
Don Serafino da Fermo denuncia come eretico il «Sommario della Santa Scrittura»
Nell’autunno del 1537, venne diffuso anche a Modena, per opera del libraio Antonio Gadaldino, «El Summario della Sancta Scriptura», un libretto in 31 capitoli, di 96 carte in quarto, senza autore, né stampatore, né data. Il testo, che divenne uno delle opere classiche della Riforma italiana, aveva la forma di manuale di vita cristiana, rivolto a tutti, ma soprattutto ai laici. In esso, infatti, era forte la polemica contro il formalismo ecclesiastico, mentre la vita quotidiana dei lavoratori veniva considerata la più cristiana possibile. In una città, in cui i fermenti anticlericali erano forti, il libretto ebbe un grande successo e si era diffuso tanto fra i religiosi che fra i laici, fra i simpatizzanti della riforma che i cattolici di sicura ortodossia, come il cronista.
Sennonché in dicembre il canonico regolare Serafino da Fermo, avutane una copia dalla contessa Lucrezia Pico Rangoni, vedova del conte Claudio, lo lesse con attenzione e ne notò subito il carattere sospetto. Qualche giorno dopo, l’11 dicembre, predicando in duomo per l’Avvento denunciò la natura eretica del libretto e se la prese con una setta «como luterana» a Modena, con evidente riferimento all’Accademia. Nei giorni successivi, don Serafino intimò la consegna all’inquisitore di S. Domenico di tutte le copie.
1538
Parodia di don Serafino durante una festa di nozze in casa di Niccolò Machella.
Nella notte tra il 16 e il 17 febbraio, si tenne in casa di Nicolò Machella la festa di nozze della figlia con Francesco Camurana. Durante il banchetto, tre trombettieri mascherati, scimmiottando il modo di leggere le grida dell’epoca, vituperarono don Serafino,che un paio di mesi prima aveva tenuto una dura predica contro El Summario della Sancta Scriptura.
Presenti alle nozze vi erano le persone più illustri dell’Accademia: oltre naturalmente allo sposo e al suocero, c’erano fra gli altri Giovanni Bertari, alcuni fratelli Grillenzoni, Filippo Valentini, Francesco Porto, Ludovico Castelvetro e Camillo Molza.
A seguito della parodia di don Serafino alle nozze in casa Machella, «scrite molto deshoneste» furono attaccate per tutti i cantoni della città fino ad arrivare sulle colonne del duomo e alle porte dei conventi. La contessa Rangoni si lamentò presso il governatore, il quale, dopo aver espresso l’intenzione di far impiccare un paio di persone, il 4 marzo arrestò il Bertari e il precettore di casa Machella. Il primo aprile i due prigionieri vennero liberati «senza rumore».
1539
Il francescano Antonio da Castellina predica in duomo
Tra il 25 e il 28 maggio 1539, il francescano Antonio da Castellina dei Minori conventuali di Bologna tenne in duomo tre prediche che riscossero grandissimo successo, citando Paolo e Sant’Agostino. Senonché una lettera anonima lo accusava di essere luterano.
Il giorno dopo, forte dei consensi ricevuti, rivendicò dal pulpito di non essere eretico, ma un buon cristiano, che aveva detto la verità «secondo la Sacra Scriptura». Per tutta risposta venne citato a comparire dall’inquisitore con l’accusa non solo di luteranesimo, ma anche di erasmianesimo.
1540
Don Girolamo Teggia arriva a Modena
Dopo aver propagandato idee eterodosse presso la pieve di San Giacomo Cremonese, don Girolamo Teggia giunse a Modena. Fu accolto da Lucrezia Rangoni come precettore per il figlio Fulvio e legò subito con gli accademici.
Nell’ottobre del 1540, fu arrestato, sempre per luteranesimo, Camillo Renato, che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Lisia Fileno nella villa di Anna Carandini alla Staggia nel nonantolano e diffondeva dottrine eterodosse, commentando privatamente le epistole di Paolo. Filippo Valentini, Bertari e Machella intervennero in suo favore presso il vicario affinché la sua causa non fosse lasciata completamente nelle mani dell’inquisitore.
1541
Bernardino Ochino predica in duomo
A seguito di un breve papale che autorizzava la predicazione solo in duomo per la città di Modena, in assenza del vescovo, il vicario Sigibaldi, era investito dell’autorità di verificare l’ortodossia dei predicatori. Per la quaresima concesse il pulpito del duomo a Bernardino da Siena, detto l’Ochino, mettendo tutti d’accordo.
Così, il 28 febbraio 1541, Modena sembrò ritrovare per un giorno l’armonia religiosa, tanto che il vicario era convinto che sarebbero state presto estirpate le eresie, se si fosse fatto predicare più spesso il cappuccino senese. L’entusiasmo degli accademici avrebbe però dovuto insospettirlo e, infatti, la clamorosa fuga in terra riformata dell’Ochino l’anno seguente avrebbe evidenziato la totale impreparazione del Sigibaldi al gravoso compito che gli era stato affidato.
I Domenicani iniziano la lettura delle lettere di Paolo
Allarmati però dalle aperte manifestazioni di eterodossia in città, i domenicani pensarono che fosse ora di passare al contrattacco in maniera propositiva, non più solo difensiva.
Il 25 marzo, iniziarono a commentare in San Domenico le lettere di Paolo, in modo da non lasciarne l’esclusiva agli eterodossi. La mossa fu azzeccata e le letture incontrarono un grande successo, dimostrando ulteriormente il bisogno dei modenesi di approfondire i temi religiosi allora d’attualità.
Tuttavia, gli animi, in fatto di questioni religiose, erano molto surriscaldati e si iniziò a mormorare che persino il lettore di San Domenico, fra’ Bartolomeo della Mirandola, fosse luterano, perciò alla fine lo si dovette allontanare dal monastero.
Viene avviato un processo inquisitoriale contro il Bertari
L’inquisitore decise, tra le ormai consuete proteste, di avviare un processo contro il Bertari, che, ignorando ogni ammonizione, aveva continuato le sue letture davanti ad un pubblico crescente (pare che si arrivò addirittura a 400 persone presenti) e aveva rilasciato dichiarazioni sempre più audaci, attaccando voti, digiuni e la validità delle preghiere non intese.
Il prete si recò a Roma, sperando di poter far valere le sue autorevoli protezioni, ma dopo pochi giorni arrivò la sua scomunica. Si aprì un vero proprio conflitto tra i domenicani e i canonici, che, guidati da Bonifacio Valentini, decisero di difenderlo apertamente. La polemica arrivò a coinvolgere tutta la città e a toccare anche la figura del Morone, che aveva sempre mostrato di stimare il Bertari. Si era ormai venuto a formare un fronte eterodosso compatto tra gli accademici e i discepoli dell’inquisito, di cui facevano parte anche parecchie donne.
Si avviò ad una conclusione la spinosa vicenda del Bertari, che venne obbligato a una pubblica abiura. Appena riabilitato, riuscì tuttavia a trovare chi richiedesse a gran voce i suoi servizi. Si trattavano delle monache agostiniane del convento di San Paolo. Questo era stato, infatti, l’unico convento femminile cittadino, in cui i temi della riforma avevano in qualche modo fatto breccia e v’era stato un parziale risveglio spirituale. Il Morone non trovò nulla da ridire nella sospetta richiesta delle monache e in breve il prete venne nominato confessore del monastero.
Gregorio Cortese viene incaricato da Paolo III di indagare la presenza di eresie nella città di Modena
Nel mese di ottobre Paolo III incaricò l’abate benedettino di Mantova, il modenese Gregorio Cortese, di indagare la situazione in relazione al diffondersi di dottrine luterane. Giunto in città, però, il frate si ammalò e non poté quindi fare molto.
1542
Il Morone rientra a Modena
Il 7 maggio del 1542, riuscì finalmente a tornare nella sua diocesi il Morone. Egli aveva una panoramica chiara dei problemi che avrebbe dovuto affrontare, dei diversi soggetti coinvolti e delle loro posizioni, grazie alla corrispondenza quotidiana che aveva tenuto con il suo vicario. Quindi, tutt’altro che colto di sorpresa, aveva già una sua strategia definita, nel tentativo di attuare in loco quell’accordo con la controparte protestante, che gli spirituali non erano riusciti ad ottenere in Germania.
L’idea del Morone era di concordare una confessione di fede, su cui tutte le parti in causa potessero convenire. Convocò in maniera informale il Teggia e il Bertari e, verificato che dietro alle scuse ed alle reticenze vaghe, si professavano in realtà dottrine eterodosse, li invitò a scrivere una dichiarazione di fede segreta.
Si trovò però di fronte fin da subito ad una forte resistenza, motivata con la falsa modestia di non riuscire a stenderla e la paura di vederla usare in futuro contro loro stessi per la malignità di «falsi testimoni».
Il Morone chiede aiuto al Contarini nella sua trattativa con l’Accademia
Il 21 maggio, Morone scrisse, al Contarini, legato di Bologna, esponente di spicco del gruppo degli spirituali, per chiedergli aiuto nella trattativa con gli accademici. Già il giorno seguente, ricevette la disponibilità del cardinale, che venne così coinvolto a tutti gli effetti come co-autore nella ricerca di un accordo.
Oltre agli obbiettivi religiosi e politici, i due prelati avevano in comune anche un altro interesse: l’accademico Filippo Valentini, trasferitosi a marzo presso il vescovo bolognese e sposato ad una nipote del cardinale Sadoleto, imparentato a sua volta con il Contarini stesso. Insomma, alla storia universale della chiesa, si sovrapponevano vicende più private e interessi familiari locali.
Morone si reca a Bologna per incontrare il Contarini
Impegnato nella estenuante trattativa con gli eterodossi alla ricerca di un testo da sottoscrivere, il Morone si recò a Bologna per parlare personalmente con il Contarini, che gli aveva già garantito il suo appoggio nella questione. L’effetto di quel colloquio fu l’impegno del legato bolognese a redigere un testo ad hoc per risolvere il problema modenese.
Il cardinale modenese Sadoleto, pur lontano dalle posizioni del gruppo degli spirituali, prese l’autonoma iniziativa di scrivere agli accademici, mettendoli al corrente della cattiva fama che si erano acquisiti e garantendo loro la propria protezione, a patto che cessassero ogni comportamento sospetto.
Viene recapitato a Modena il «Formulario di fede» redatto dal Contarini
Il 14 giugno, mentre il Sadoleto discuteva in concistoro il “caso Modena”, il testo redatto dal Contarini veniva recapitato a Modena.
Lo scritto del Contarini aveva l’aspetto semplice di un formulario, diviso in 41 articoli. Non era polemico ed evitava le contrapposizioni nette, perché mirava a fornire risposte accettabili alla controparte, al punto da essere persino elusivo nella questioni scottanti.
Era soprattutto un tentativo di evidenziare la compatibilità della dottrina della giustificazione con l’impianto sacramentale, liturgico e gerarchico della chiesa cattolica. Infatti, il legato bolognese riteneva (e di lì a poco l’avrebbe dichiarato in maniera esplicita) che il fondamento della teologia luterana fosse vero e cristiano; come tale la chiesa di Roma avrebbe dovuto accettarlo. A suo avviso, l’osservanza delle cerimonie ecclesiastiche era necessaria, ma non garantiva la remissione dei peccati, che si poteva ottenere per mezzo di Cristo.
Nel testo da lui redatto non vi era alcun articolo dedicato in maniera specifica al problema della giustificazione, ma la sua interpretazione della «duplex iustitia per fidem et charitatem» lo permeava implicitamente. Sulle preghiere non intese, affermava che esse fossero valide per l’intenzione dell’anima, ma non utili come quelle intese. L’eucarestia era definita nutrimento spirituale dell’anima, ma sottolineava anche l’importanza della disposizione di fede del comunicante. Il valore della messa consisteva nel sacrificio di lode e nel ricordo dell’unico sacrificio di Cristo, ma anche nell’offerta, con la quale i credenti offrono Cristo e la sua passione. E così via, sulla confessione, il purgatorio, l’invocazione dei santi, cercando di spuntare i punti critici e di permettere, quanto più possibile, ai destinatari dello scritto di ritrovarcisi.
Il Contarini tralasciò di addentrarsi sul problema della predestinazione, nonostante il Morone glielo avesse chiesto esplicitamente.
Il Sadoleto riferisce in concistoro sulla situazione modenese
A seguito della sua missiva agli accademici, il cardinale Sadoleto ricevette le risposte di Ludovico Castelvetro, Alessandro Milani, Giovanni Grillenzoni e Francesco Porto, troppo simili fra loro per non essere concordate. Con caute reticenze, tutti tentavano di attribuire alla malignità di alcuni frati e alla confusione delle loro posizioni con quelle di alcuni «plebei» ignoranti le dicerie sul loro conto, mentre loro si occupavano solo degli studi.
Il 14 giugno, mentre il testo redatto dal Contarini veniva recapitato a Modena, il Sadoleto riferiva in concistoro. Il giorno seguente si rivolse di nuovo agli accademici, chiedendo che scrivessero a Roma e indicando il contenuto che avrebbero dovuto avere le loro lettere. Si trattava, in sostanza, di far apporre la loro firma sotto una dichiarazione di fedeltà alla chiesa cattolica e alle sue dottrine, finendo per convergere sull’idea iniziale del Morone.
Morone ottiene con un breve papale l’autorizzazione a procedere contro gli eretici, ma anche ad assolvere in via extragiudiziale
Nel tentativo di costringere gli eterodossi a firmare una sottoscrizione di fede, il 22 maggio 1542, Morone scrisse a Roma chiedendo sia di poter punire i colpevoli di eresia, sia di poter assolverli in via extra-giudiziaria. Con un breve del 23 giugno, gli venivano concesse entrambe le facoltà.
Tuttavia, in seguito non volle utilizzarle. D’altra parte, già nel 1540, in una sua famosa missiva da Gand, si era espresso contro l’uso di mezzi violenti, a suo parere utili «più tosto estinguere gli huomini che le heresie», anche perché «la religione non par da principio si convenga essere trattata per via di guerra».
Quindi, con questa mossa, forse intendeva solo sollecitare una moderata pressione sui dissidenti o verificare per sé stesso tutte le carte a sua disposizione.
Paolo III emana la bolla «Licet ab initio» per riorganizzare l’inquisizione sul modello di quella spagnola
A seguito dell’allontanamento dalla curia del Contarini, il partito intransigente, guidato dal Burgos, dal Cervini e soprattutto dal Carafa, preparò una svolta politica a proprio favore e riuscì ad indurre Paolo III ad emmettere la Bolla «Licet ab initio». Con essa venne riorganizzata l’Inquisizione sul modello di quella spagnola, dandole così l’incisività, che nei decenni successivi le avrebbero permesso di sradicare ogni eterodossia dal territorio italiano. A seguito della bolla «Licet ab initio», tra gli eterodossi si era diffuso il panico e, il 28 luglio, Francesco Porto si allontanò da Modena con la scusa di andare a trovare il padre malato.
Sadoleto arriva a Modena con l’incarico da parte del papa di concludere la vicenda del «Formulario di fede»
In estate, a seguito del mutare del clima politico a Roma, il gruppo degli spirituali rischiò di venirsi a trovare a sua volta in una posizione pericolosa. Temendo che la mediazione con gli accademici potesse ritorcersi contro loro stessi, Morone e Contarini decisero, quindi, di inviare al papa il «Formulario di fede», accompagnato da una lunga relazione apologetica sulla vicenda, e di attendendere la sua decisione per procedere.
Il papa autorizzò a procedere con il «Formulario di fede», ma affidò al Sadoleto l’incarico di portare a termine la vicenda. Il 30 agosto, il cardinale arrivò in città, dove innanzitutto incontrò il Morone e il Cortese. Poi, durante un’ultima estenuante trattativa con gli accademici, riuscì a piegarli alla sottoscrizione, con la minaccia di aprire un processo inquisitoriale.
Alla fine, l’unica cosa che gli eterodossi ottennero fu di vedere controfirmato il formulario anche da altri autorevoli cittadini di sicura ortodossia, evitando così che, in futuro, potesse essere trasformato in una lista di sospetti relapsi.
Riunione del Consiglio cittadino per presentare il «Formulario di fede»
Dopo estenuanti trattative durate tutta l’estate, il 1 settembre 1542, si giunse alla riunione in pompa magna del Consiglio cittadino, in cui venne presentato ufficialmente il «Formulario di fede», sotto il segno dell’autorità papale.
Si trattava, senza alcuna modifica, del testo del Contarini, tranne la formula finale, scelta probabilmente dal Sadoleto, che rendeva più esplicita la sottomissione all’autorità della chiesa: «Io dunque approvo tutti questi articoli e ritengo che debbano essere approvati, sottomettendomi quindi sempre a questi e a tutti gli altri secondo il giudizio della santa chiesa cattolica romana». A nome del Sadoleto, del Morone e del Cortese si invitava ad approvarli e i Conservatori disposero che fossero obbligati a firmare tutti coloro a cui fosse stato richiesto.
I primi ad apporvi il proprio nome furono i tre cardinali. Mentre il Sadoleto ripartiva per la Francia, iniziarono le sottoscrizioni nell’ordine: Sigibaldi, Cassiodoro da Novara (abate del monastero benedettino di San Pietro), Andrea Civolini (arciprete della cattedrale), Bonifacio Valentini, Lorenzo Bergomozzi, Teofilo dal Forno e Andrea Codebò (canonici oggetto di gravi sospetti), Pellegrino degli Erri e Gabriele Falloppia (membri dell’Accademia), otto Conservatori, il Sindaco generale della Comunità, Giovanni Niccolò Fiordibello (padre di Antonio, segretario del cardinale Sadoleto), Alfonso Sadoleto (fratello del cardinale), il conte Gaspare Rangoni, Francesco ed Agostino Bellencini, Ludovico Castelvetro, Filippo Valentini, Francesco e Bartolomeo Grillenzoni.
Francesco Porto torna a Modena
Il 10 settembre il Porto rientrò a Modena. Il Morone non lo voleva ammettere alla firma, a causa dei sospetti particolarmente gravi sul suo conto, ma poi, dopo l’intervento a suo favore dei Conservatori, del governatore Francesco Villa e forse persino del duca, anche il suo nome apparve a sigillo del documento.
Alla fine, in calce al formulario, furono poste 44 firme, in cui quelle di tre cardinali si mischiavano ad autorevoli cittadini e ad una ventina di sospetti eretici. Va notato, però, che tra i sospetti eterodossi conosciuti alle cronache, mancano all’appello Marco Caula e Francesco Sighizzi, Francesco Milani, Cesare Bellencini, Bartolomeo Carandini e Camillo Molza, Antonio Caverdino, Gaspare de Ferrari, Ercole Rangoni e il librario Antonio Gabaldino. Queste firme mancanti confermano, oltre alle modalità con cui si era giunti all’approvazione del formulario, che la strategia del Morone non era riuscita a riassorbire il dissenso.
Riprendono le lezioni di greco in Comune
Dopo la conclusione della vicenda del «Formulario di fede», l’11 settembre il Porto affisse, fuori dalla colonna del palazzo comunale, l’avviso che il 2 ottobre avrebbe ripreso le lezioni di greco e, puntualmente, questo avvenne, con più pubblico del solito, con forte irritazione dei cattolici tradizionalisti.
1543
Si stabilisce a Modena Bartolomeo Fonzio
Dopo un lunghissimo pellegrinaggio che, a seguito dell’apertura di un processo inquisitoriale già nel 1531 da parte del Carafa, lo aveva portato a girare mezza Europa, nel 1543 era giunto a Modena il minore conventuale Bartolomeo Fonzio.
Portò in città la propria teologia radicale, predicando che gli eletti erano salvi senza battesimo e le liturgie della chiesa solo presunzione umana, perché la vera chiesa era quella dei poveri, sconosciuti al mondo. La chiesa dei pontefici poteva errare e il voto di castità non era obbligatorio. L’acqua, di cui parlava Cristo in Giovanni 3:5, era da intendersi solo in senso spirituale e l’estrema conversione del peccatore solo utopia.
1544
Primi incontri segreti degli eterodossi in casa Camurana per leggere il Vangelo
Costretta al silenzio dalle grida emesse dal duca, l’Accademia del Grillenzoni dovette rinunciare al tentativo di riformare direttamente la fede comune della città e la testimonianza pubblica andò attenuandosi, fino a scomparire.
Tuttavia, ciò non significò la scomparsa del movimento eterodosso, perché in tanti non erano disporsi a rinunciare alla nuova fede. Preso atto che non vi erano più margini di discussione all’interno della chiesa cattolica, iniziarono a riunirsi segretamente nelle case e nelle botteghe, per leggere insieme la Scrittura e «ragionare».
Secondo le testimonianze, questi incontri risalivano già al 1544 e diventarono sempre più organizzati nel tempo: i piccoli gruppi, aggregatisi nella seconda metà degli anni Quaranta, si strutturarono meglio nel ventennio successivo, specialmente dalla fine degli anni Cinquanta. Con il tempo, prendeva fisionomia una comunità di base semplice, ma con caratteristiche abbastanza definite, di orientamento zwigiano-calvinista.
Predica di Bartolomeo della Pergola in duomo
Invitato dal Morone, il quale probabilmente gli aveva anche indicato quali temi trattare, il frate minore conventuale Bartolomeo Golfi della Pergola predicò in duomo il 27 febbraio 1544, primo giorno di quaresima. Vista la fama del predicatore, la chiesa era gremita.
Il maggiore interesse del Pergola riguardò ovviamente la salvezza. In modo particolare, egli sostenne che le opere fatte per il proprio interesse personale erano idoli e come tali dannavano l’anima. Pertanto, riteneva che le opere umane non meritassero niente e i precetti di Dio fossero impossibili da osservare. Confidare nelle opere significava offendere Cristo, stimando insufficiente la sua morte. Era una «pazzia» che i predicatori incutessero il terrore del giudizio divino dal pulpito, dal momento che si era redenti dal sangue del Signore.
Anche l’interpretazione della predestinazione era molto stretta nel Pergola, al punto da affermare che agli eletti non sarebbe stato imputato peccato. La predestinazione non si poteva perdere: il giusto non poteva abbandonare la sua giustizia, né il peccatore rinnovarsi per la penitenza. Di conseguenza, il battesimo non aveva alcun valore salvifico e i fanciulli non battezzati, che fossero stati nel numero degli eletti, si salvavano.
Il Pergola non pronunciò il Sancta Maria e l’ora pro nobis. Negò l’invocazione dei santi «astutissimamente», come scrisse l’inquisitore più tardi, attraverso un silenzio molto eloquente. Insistette che Cristo era l’unica via di salvezza ed era sbagliata la concezione di chi temeva di andare a Lui direttamente, perché carico di peccati. Conseguentemente, il Pergola tacque sul purgatorio e sulle intercessioni per i defunti. Tacque anche sul supposto potere della chiesa di legare e sciogliere durante la confessione. Egli sosteneva che la confessione fosse «di diritto divino», ma non fosse indicata un’obbligatorietà temporale e gli uomini avrebbero fatto bene a confessarsi prima di tutto a Dio.
In quanto all’eucarestia, il Pergola stette molto sul vago, ma ciò che disse tendeva a un’interpretazione più simbolica che reale del sacramento. Egli, infatti, affermò che non erano necessarie tante preparazioni, prima di ricevere la comunione, e che bisognava, però, stare attenti a non commettere idolatria nel nominare gli accidenti. Affermò che l’eucarestia era come l’anello dato dallo sposo alla sposa in perpetua memoria del vincolo che li legava.
Alla fine, persino l’istituzione ecclesiastica veniva cautamente criticata, infatti deplorò apertamente le «tradizioni umane», sottintendendo, senza nominarle, quelle della chiesa. Sul digiuno affermò che, pur dovendo tenere conto delle indicazioni delle autorità ecclesiastiche, non era obbligatorio. Anche le elemosine non erano a suo giudizio vincolanti. Condannò la pompa funebre, sostenendo che era meglio dar le candele ai poveri, invece di accenderle in chiesa. Riprese l’oziosità di preti e monaci. Altrettanto libero si sentiva il Pergola di contrapporre la sua interpretazione della Scrittura rispetto a quella di alcuni padri della chiesa.
Ribadì il primato dello spirito sulla carne. Tutte le religioni, a suo avviso, erano carnali, mirando alla mortificazione della carne e non dello spirito.
Pubblica ritrattazione di Bartolomeo della Pergola in duomo
A seguito della predica tenuta in duomo da Bartolomeo della Pergola, vi furono parecchie polemiche sulla sua ortodossia.
Il duca Ercole II, con una lettera datata 4 giugno, fece muovere l’ambasciatore presso il papa, probabilmente sia per dimostrare buona volontà nell’estirpare l’eresia, sia preoccupato per le ripercussioni sull’ordine pubblico, che i contrasti di ordine religioso provocavano sul territorio. A quel punto, però, anche i domenicani dell’Inquisizione avevano iniziato ad esaminare il caso. Il loro intervento non poteva passare sul Pergola senza coinvolgere il Morone, il quale da molte parti era considerato corresponsabile di quello che il frate aveva predicato. Perciò, pur dichiarando ufficialmente il suo desiderio che l’Inquisizione cittadina procedesse, di fatto cercò di scavalcarla.
La vicenda, oltrepassate le mura cittadine, aveva portato dopo Pasqua all’apertura di un processo anche da parte dell’Inquisizione romana. I rapporti tra il cardinale e il frate divennero tesi. Il Morone probabilmente era irritato dal modo poco cauto di procedere del Pergola, ma doveva risolvere il problemi di questi, se non voleva finirvi travolto anche lui.
La soluzione, infine, adottata dal Morone fu quella di far pronunciare, il 15 e 16 giugno, al frate sospetto una pubblica ritrattazione degli articoli imputategli, il cui contenuto non fu concordato, ma imposto dal cardinale.
Il frate tornò quindi sul pulpito a Modena domenica 15 giugno. Più di tremila persone accorsero più per curiosità. Non solo nelle dimensioni, ma anche nella sua composizione, il pubblico era quello delle grandi occasioni.
La cronaca descrive il Pergola evidentemente corrucciato e con la voce roca, quasi tremolante, più turbato che pentito. Forse il frate, pur consapevole di doversi piegare, non riuscì a farlo fino in fondo e pare che predicasse addirittura “con più audiatia di prima”. Cercò infatti di non ritrattare direttamente fin dove gli fosse possibile, di puntualizzare alcuni aspetti e in alcuni casi di ribadire le sue idee. Il suo intento era quello di dimostrare di non essere eretico, ma fu probabilmente costretto a rimangiarsi più parole di quante avesse voluto. Attuò insomma una sorte di “nicodemismo dal pulpito”, pratica che negli anni successivi si sarebbe diffusa man mano che i margini di libertà si sarebbero ridotti.
1545
Bartolomeo Fonzio e Tommaso Bavellino devono fuggire da Modena a causa dell’apertura di un processo inquisitoriale a loro carico a Ferrara
Avendo portato in città predicazioni così radicali da non passare inosservate, fu aperto contro Bartolomeo Fonzio e Tommaso Bavellino un processo inquisitoriale contro di loro a Ferrara nell’autunno ‘45. I due fuggirono da Modena.
Grida di Ercole III che impongono il silenzio in materia religiosa
Il 24 maggio del 1545, i cattolici tradizionalisti, sostenuti da Roma, riuscirono ad indurre il duca Ercole II ad emettere grida per imporre il silenzio in questioni di fede, minacciando pene severissime «contra ale persone maldicente della ordinatione della S.ta Giesa appostolica romana». Entro la fine di giugno, tutti i libri eretici dovevano essere bruciati. I trasgressori sarebbero stati puniti con multe, la corda, il bando o il rogo, a seconda della gravità e dell’eventuale reiterazione del reato.
Gli effetti sperati furono immediati e, già dal giorno stesso, molti non si presentarono alla consueta riunione, davanti alla spezieria di uno dei fratelli Grillenzoni.
Tentativo di arresto di Filippo Valentini
Il duca Ercole II finì per cedere alla richiesta del papa di arrestare Filippo Valentini, definito «iniquitatis filius». Ma, quando le guardie, nella notte tra il 4 e 5 giugno, entrarono con la forza in casa sua, questi, probabilmente avvertito in tempo da qualcuno, era già fuggito in campagna.
Francesco Bellencini, Carlo Codebò, G.B.Tassoni e G. Calora spinsero i Conservatori ad intervenire presso il duca, mentre, tra luglio e settembre, il Valentini veniva riconfermato nel Consiglio cittadino, per rendere manifesta la loro solidarietà.
Le pressioni dei Conservatori sul duca permisero a Filippo Valentini di rientrare a Modena, pagando solo una cauzione.
1547
Al Concilio di Trento viene pubblicato il decreto sulla giustificazione
Nel gennaio del 1547, arrivò per gli spirituali la sconfitta più dura al Concilio di Trento, dove, nonostante il parere contrario espresso a Paolo III dal Pole, dal Morone, dal Cortese ed dal Crescenzo, si procedette alla pubblicazione del decreto sulla giustificazione.
Con imbarazzo, il cardinale inglese si ritirò alla vigilia dell’approvazione, per non dover sigillare il documento. Il Morone commentò deluso: «Io servarò quanto hanno determinato, ma l’haveria aspettato questa materia de iustificatione un poco più chiara». Negli anni immediatamente successivi, pare che avesse espresso il desiderio che il Concilio lo ritrattasse.
Quel decreto condannava come eretiche le posizioni degli spirituali, vanificandone, in un colpo solo, l’azione di riforma sia religiosa, sia politica.
1549
Tommaso Bavellino arrestato a Modena
Dopo il processo aperto contro di lui a Modena, il Bavellino tornò a Bologna per entrare in contatto con un altro gruppo eterodosso. Tornò poi nuovamente a Modena, dove venne arrestato per la terza volta il 5 marzo del ‘49. Non si conosce la fine delle sue vicende.
1550
Egidio Foscarari diventa vescovo di Modena
La diffusione dell’eterodossia rendeva la diocesi di Modena di difficile governo ed il Morone si trovava, oltretutto, gravato dall’impossibilità di farvi residenza continuativa. Egli stesso aveva chiesto a più riprese di essere sollevato dall’incarico, per essere sostituito da una personalità di rilievo.
Nel 1550, fu infine accontentato e, al suo posto, subentrò il bolognese Egidio Foscarari, teologo di fama, uomo di costumi irreprensibili e, al contrario del predecessore, di sicura ortodossia. La sua opera fu molto apprezzata in città per l’attenzione alle opere caritatevoli e per le sue missioni pastorali nei confronti delle parrocchie più disagiate, come quelle della montagna.
Anche se totalmente estraneo all’eterodossia, tenne un comportamento molto mite nei confronti dei dissidenti religiosi, improntato più alla ricerca della conciliazione che della repressione. La prassi che seguiva era di chiamare a conversazioni, del tutto informali ed amichevoli, i sospetti. Li interrogava e parlava loro, tentando di chiarire l’eventuale eresia. Li ammoniva e li invitava a un’abiura del tutto segreta in via extragiudiziaria. Registrava questi incontri in un libriccino strettamente privato.
1555
Apertura del processo inquisitoriale contro il Morone
Il Carafa, promotore e guida del Sant’Uffizio romano, considerava gli spirituali, di cui il Pole ed il Morone erano i leader più illustri, non un partito progressista da battere, ma veri e propri eretici che minacciavano di insediarsi al vertice della chiesa cattoica. Convinto che «gli heretici se voleno trattare da heretici», iniziò coerentemente a raccogliere testimonianze contro i due cardinali, interrogando tutti gli sfortunati che incappavano nella macchina dell’Inquisizione.
Divenuto papa nel 1555 con il nome di Paolo IV, poté aprire ufficialmente il processo al cardinal Morone.
Convocazione presso l’inquisizione di Roma di Ludovico Castelvetro, Bonifacio e Filippo Valentini, Antonio Gadaldino
Nel 1553, il poeta Annibal Caro scrisse una canzone in onore dei Valois, «Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro», che fu criticata dal Castelvetro. Ne seguì un’aspra polemica che coinvolse man mano parecchi esponenti del mondo culturale italiano e si protrasse per un paio d’anni. Nel 1555, il Longo, un sostenitore del Caro, fu trovato ucciso nelle campagne bolognesi e parte dell’opinione pubblica additò il Castelvetro come mandante del delitto. Questi, in effetti, sarebbe stato successivamente condannato in contumacia alla pena capitale dal tribunale di Bologna, sentenza per altro senza alcun effetto, perché Modena non ricadeva sotto la sua giurisdizione. Nel tempo, gli storici si sono divisi tra innocentisti e colpevolisti senza che si sia detta la parola fine sulla questione.
Certo è che, dopo l’assassinio del Longo, per il Castelvetro iniziarono anche i guai con l’Inquisizione. Difficile stabilire se l’intervento dei domenicani fosse sollecitato dal Caro (o chi per lui) oppure se fosse solo l’effetto del mutare del clima in seno alla chiesa cattolica, a seguito dell’elezione al soglio pontificio del Carafa, fanaticamente deciso a combattere l’eresia con la forza.
Fatto sta che, il 1 ottobre 1555, Paolo IV pubblicò un breve, con cui si citavano a Roma Castelvetro, Antonio Gadaldino, Bonifacio Valentini ed il nipote Filippo. Il duca temporeggiò, a causa della richiesta dei Conservatori di proteggere i cittadini modenesi incriminati, «tenuti persone virtuose e non tali che debbono esser dishonorati a questo modo». Ma, alla fine, il 6 luglio dell’anno successivo dovette cedere alle richieste di Roma, dando istruzioni di pubblicare le citazioni al governatore di Modena, Ercole Contrari, nonostante le proteste ufficiali sia di questi, sia del Consiglio cittadino. Il vescovo di Modena, Foscarari, da parte sua, dimostrò «infinita amorevolezza» al Castelvetro, cercando di confortarlo per la persecuzione che doveva subire. Tutti i citati in giudizio si allontanarono subito dalla città, tranne il Gadaldino.
1557
Arresto di Gadaldino
Unico tra i quattro citati in giudizio a non allontanarsi dalla città, il Gadaldino fu imprigionato maggio del ‘57.
Arresto del Morone, rinchiuso in Castel Sant’Angelo
A due anni dall’apertura ufficiale del processo inquisitoriale, il 31 maggio del 1557, il Carafa fece arrestare e rinchiudere in Castel Sant’Angelo il Morone.
L’indignazione fu generale e il sospetto diffuso che non fossero solo motivazioni religiose, ma anche politiche, a spingere ad un gesto così clamoroso. Il Carafa, infatti, era fortemente filo-francese, mentre, per ragioni di politica interna, gli Asburgo apprezzavano molto il tentativo di conciliazione con i riformati, portato avanti proprio dagli spirituali.
1559
Tre anni dopo, in seguito alla morte di Paolo IV, nel settemre del 1559 il Morone fu liberato.
Nel mese di ottobre dello stesso anno fu processato, il libraio Gadaldino fu infine condannato ad abiurare.
1560
Assoluzione del Morone
Il Morone venne assolto nel marzo del ‘60 da Pio IV. Anche se non era riuscito il tentativo di farlo condannare, il Carafa aveva raggiunto comunque il suo scopo, perché l’immagine del cardinale ne fu talmente danneggiata che non sarebbe mai più stato inserito nella lista dei papabili.
Castelvetro interrogato dall’Inquisizione di Roma
Dopo essere fuggito a seuito della citazione in giudizio da parte dell’Inquisizione, il Castelvetro si decise a presentarsi a Roma nel ‘60, dopo la morte del Carafa.
Qui venne interrogato l’11, il 14 ed il 17 ottobre, ma, quando comprese che l’inquisitore era in possesso della sua traduzione del «De ecclesiae autoritate et de veterum scriptis libellus» di Melantone, si rifugiò all’estero, accompagnato dal fratello.
1562
Bartolomeo Fonzio viene annegato nella laguna veneta
Dopo essere fuggito da Modena, a causa del processo inquisitoriale aperto contro di lui e altre varie vicissitudini, il 4 agosto del 1562, Bartolomeo Fonzio fu affogato nella laguna veneta per essersi rifiutato di abiurare.
1564
Morone torna a essere vescovo di Modena
A seguito della morte del Foscarari, Morone viene rinominato vescovo di Modena nel ‘64.
1566
Elezione di Ghislieri con il nome di Pio V
Nel gennaio del 1566, venne eletto papa Pio V Ghislieri, domenicano intransigente, determinato a usare l’Inquisizione («la verga di ferro») per eliminare definitivamente il movimento eterodosso dalle città italiane.
Convocazione di Giovanni Rangoni da parte dell’inquisizione di Roma
Sul conte Giovanni Rangoni si aprì un fascicolo inquisitoriale già dalla primavera del ‘63. Il conte non sembrava all’inizio esserne eccessivamente preoccupato. D’altronde dichiarava di non aver «paura né d’Inquisitore né d’altro, perché» era «d’un parentado tanto grande che lo deffenderia da chi lo volesse offendere». E, in effetti, all’inizio, il procedimento a suo carico sembrò volgersi in suo favore. L’inquisitore Camillo Campeggio, all’inizio del ‘64 partì per Reggio, in «gran colera», perché non trovava testimonianze definitive sul sospetto, nonostante le voci che circolavano in città.
Il Foscarari non considerava le dicerie sufficienti per un processo e concordò con il conte un’abiura molto generica. «Essendo cosa che si possa dire senza dishonore di Dio et de la nostra fede», il Rangoni pronunciò la ritrattazione. Sembrò essersi così tolto d’impaccio. Smise persino l’atto almeno formale di partecipare alla messa, perché diceva di non voler adorare «un pezzo di pasta per Dio».
Ma, a seguito dell’elezione di papa Pio V Ghislieri, già a marzo, nell’incartamento del Rangoni si aggiunse una nuova testimonianza e, per evitare che la sua famiglia potesse influenzare ulteriormente il tribunale locale, Roma avocò a sé la causa, nonostante a favore del conte intervenisse anche il cardinale Ippolito d’Este.
Fuga da Modena di Maranello, Giovanni Bergomozzi, Graziani, Caula e Biancolini
A seguito della sua convocazione a Roma, il Rangoni fuggì da Modena insieme a Bergomozzi, Caula, Graziani, Biancolini e Maranello, avvertiti di una cattura imminente.
Rangoni scomunicato
Il 7 settembre, il Rangoni fu condannato alla scomunica e alla confisca dei beni. Si rifugiò a Sondrio, dove morì alla fine dell’anno seguente in casa dell’eterodossa Laura Bresella. Forse si riconciliò in punto di morte con la chiesa cattolica per non danneggiare gli eredi.
Pietro Cervia fugge da Modena
A dicembre del ‘66, Pietro Antonio da Cervia riuscì a fuggire, avvisato dalla moglie Laura dell’imminente cattura. Dopo varie peregrinazioni a Parma, Reggio, Borgo e Fiorenzuola, si stabilì a Bologna, dove fu processato nella prima metà del 1567, condannato a morte come relapso e giustiziato in estate.
Maranello, Giovanni Bergomozzi, Graziani, Caula e Biancolini vengono scomunicati
Il 17 dicembre, il governatore Ippolito Turchi ricevette dall’inquisitore la condanna di scomunica contro tutti i cinque restanti fuggitivi, ma fece resistenza alla pubblicazione, attendendo istruzioni dal duca. Graziani, Biancolini e Bergomozzi si rifugiarono in Svizzera. Dei primi due non si consce la sorte, mentre l’ultimo fu scomunicato anche dalla comunità riformata, a causa delle sue idee radicali, e fu successivamente riammesso, grazie alla mediazione del pastore Alessandro Trissino, esule egli stesso.
1567
Processo al Maranello
Nel gennaio del ‘67, si tenne il processo al Maranello, dopo che era tornato in città per costituirsi. Fu condannato alla prigione perpetua e a pagare una somma per i poveri.
Condanna a morte di Marco Magnavacca
A febbraio, si concluse con la condanna a morte il processo a Marco Magnavacca. Nonostante la supplica della comunità al duca, egli fu impiccato ed il cadavere arso. A chi derideva la sua sorte, il medico Curione ribatteva che «era andato in paradiso dritto come fece il ladrone».
Breve di Pio V che concede l’indulto a chi si presenta spontaneamente all’inquisitore
Il colpo di grazia alla comunità eterodossa arrivò il 10 febbraio 1568, con un breve di Pio V che concedeva l’indulto a chi si fosse presentato spontaneamente all’inquisitore, confessando i propri errori e, soprattutto, fornendo i nomi dei complici. Nei due mesi successivi, in molti si presentarono spontaneamente per abiurare davanti al Morone. Bartolomea della Porta, Giulio Abbati, Francesco Caldano, Ercole Mignone, Ercole Platesio, Giulio Cesare Pazzani, Antonio Villani, Ercole Cervi, Giovanni Antonio Durello, Cosmo Guidoni, Ercole, Francesco e Giovanni Andrea Manzoli poterono trarsi d’impaccio con qualche orazione e digiuno. Anche chi si presentò spontaneamente mesi dopo, come il Callegari, ebbe una punizione lieve.
1568
Morte in carcere di Natale Gioioso
La situazione giudiziaria di Natale Gioioso era molto pericolosa. Infatti, questi aveva già abiurato nel 1563 e, quindi, rischiava una condanna a morte come relapso.
Nell’autunno del 1568, il suo caso fu inviato a Roma, ma il Gioiso morì il 2 novembre in carcere. All’inquisitore quella morte sembrò troppo tempestiva, perché evitava un’altra pubblica esecuzione (dopo quella di Marco Magnavacca), perciò dispose l’autopsia, ma i referti medici esclusero l’ipotesi di avvelenamento.
1571
L’effige di Sadoleto è pubblicamente arsa
Nel febbraio del ‘69, venne inquisito Giulio Sadoleto. Poco prima che ne fosse emesso il mandato di cattura, fuggì in Valtellina, dove intraprese una serie fortunata di affari economici. Intanto, a Modena, il processo a suo carico proseguì per tutto l’anno successivo, finché non si giunse, nel gennaio del 1971, al pubblico rogo della sua effigie.
Morte del Castelvetro
Dopo essere fuggito dall’Italia a causa del processo inquisitoriale contro di lui, Ludovico Castelvetro si rifugiò in Chiavenna, dove ritrovò Francesco Porto.
Nel settembre del ‘61, domandò di potersi giustificare al concilio di Trento, ma, davanti al diniego, seguì il Porto a Ginevra. Si spostò a Lione, dove nel ‘67 perse i libri e manoscritti delle opere non ancora pubblicate nel saccheggio della sua casa, durante disordini per motivi religiosi. Poi, nella fuga a piedi dalla città, fu persino spogliato dei suoi ultimi averi dai briganti.
Di lì in avanti, peregrinò di continuo, recandosi di nuovo a Ginevra, in Chiavenna, a Vienna e ancora in Chiavenna, dove morì nel febbraio del ‘71, mentre progettava un trasferimento a Basilea.
Si spense in casa dei coniugi bresciani Marco e Caterina Zobia, esuli fin dal 1563 e membri ben integrati della comunità riformata, per cui si desume che abbia mantenuto una fede sostanzialmente calvinista fino alla fine. Anzi, negli scritti in esilio, pare di comprendere che la sua fede uscì rafforzata dalle vicissitudini dei suoi ultimi anni.
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